domenica 13 aprile 2014

Festività ebraiche: Pesach

La festività di Pesach ( Pasqua Ebraica) cade quest'anno 2014 (5774 nel calendario ebraico) dal 15 al 22 aprile 2014.

E'  una delle più antiche e grandi feste d'Israele.

Con tale festività si intende ricordare l'esodo del popolo ebraico e la fine della schiavitù in Egitto.

Nel corso delle prime due sere della Pesach -che dura otto giorni per gli ebrei in Diaspora, sette in Israele - si svolge il Seder,particolare cena che segue un preciso ordine rituale durante il qualesi alterna cibo, lettura dell'Haggadah e la preghiera.

Tratto da “Le pietre del tempo, il popolo ebraico e le sue feste" di Clara ed Elia Kopciowski (edizione Ancora 2001). 
La prima sera di Pesach le famiglie ebraiche si riuniscono intorno a un tavolo apparecchiato in modo particolare, per celebrare il Seder, una cerimonia durante la quale di legge la Haggadah, il racconto dell’uscita degli ebrei dall’Egitto, arricchito di midrashim (parabole) e commenti dei Maestri, e seguito da una cena che si conclude con canti corali di inni e melodie che si tramandano di generazione in generazione, di luogo in luogo. 
(…) Il Seder è una cerimonia di alto valore pedagogico sotto molteplici aspetti. A ogni commensale, per sottolineare il senso della libertà appena acquisito, è permesso di sedere a tavola senza osservare le strette regole dell’etichetta: si possono appoggiare i gomiti sul tavolo, o sdraiarsi comodamente sulle seggiole, cose che i commensali adulti in genere, per vecchia abitudine, evitano di fare, ma che rende estremamente felici i bambini che assaporano a loro modo il primo senso di libertà. 
 Sul tavolo apparecchiato viene posto in cesto contenente tre pane azzimi (matzah), in ricordo del pane non lievitato mangiato nel deserto, una zampa d’agnello (pesach), in ricordo del zevach pesach, il sacrificio pasquale compiuto dal popolo che si accingeva a uscire dalla schiavitù, e dell’erba amara (maror), diversa a seconda delle tradizioni e della provenienza di chi celebra il Seder, in ricordo dell’amarezza patita dagli ebrei in schiavitù. 
 Il maror simboleggia forse il passo più importante verso la conquista della libertà. Dalle amarezze del passato, che lasciate fermentare, “lievitare” nell’animo e nel cuore, avrebbero potuto trasformare il popolo ebraico in un popolo crudele e vendicativo , è stato invece tratto un insegnamento basilare: è necessario affrontare la vita con una più consapevole e serena visione del rapporto fra gli uomini, è indispensabile volgere il cuore e l’animo con profondo affetto e comprensione verso i poveri, gli oppressi, i sofferenti. 
 Dalle amarezze della schiavitù è nato un inestinguibile odio per la schiavitù, la nostra, e quella di qualunque creatura, e un altrettanto inestinguibile amore per la libertà a cui ogni essere umano ha diritto e che, unica, permetterà ai figli di Israele anche in futuro di sopravvivere per adempiere alla missione. 
 Prima della distruzione del Tempio, ogni famiglia che andava in pellegrinaggio a Gerusalemme vi portava il suo agnello del sacrificio che poi veniva arrostito e mangiato. Ma da quanto il Tempio è stato distrutto e i sacrifici interrotti, i Maestri hanno deciso che, per ricordare la gravissima perdita, durante la cena di Seder non venga servito nessun tipo di carne arrostita. 
 Oltre a questi tre simboli di Pesach (pesach, matzah, maror), nel cesto vi è un uovo sodo, il charoseth, un impasto preparato anch’esso secondo ricette che variano a seconda delle tradizioni dei vari luoghi di provenienza, e che simboleggi la malta che gli ebrei schiavi erano costretti a preparare in Egitto per fabbricare i mattoni con cui avrebbero edificato la città del Faraone. Per il Seder però la malta si trasforma in un dolce impasto di frutti: datteri, noci, mandorle e altro per sottolineare la fine della schiavitù. Vi è poi del sedano (carpas), che deve essere intinto in acqua e sale, o in acqua e aceto: probabilmente una specie di aperitivo in vista della cena. 
 Sul tavolo viene posto, oltre al bicchiere destinato al Kiddush, alla santificazione della festa attraverso il vino e il pane, un altro bicchiere d’argento pieno di vino destinato al profeta Elia. La tradizione vuole infatti che il profeta, durante la prima sera di Pesach, si aggiri fra le case degli ebrei per portare i suoi voti augurali alle famiglie che celebrano il Seder, e ognuno spera di far parte dei privilegiati che riceveranno la sua visita. 
 La visita è tanto più attesa in quanto la tradizione afferma che sarà proprio il profeta Elia ad annunciare al mondo il giungere dell’Epoca messianica. E ogni ebreo vive la speranza che l’Epoca messianica, l’epoca della pace, dell’armonia, dell’amore fra tutti i popoli, sia proprio lì, dietro la porta di casa, porta che infatti, durante il Seder, viene lasciata aperta anche perché è detto: “chi vuole entri, mangi e celebri Pesach”. 
 Forse l’uso si riallaccia anche al Talmud in cui è scritto: “Nel mese di Nissan fummo redenti, e nel mese di Nissan siamo destinati a essere redenti”. 
 Val la pena soffermarsi un momento sul significato dell’uovo sodo. Per l’ebraismo esso ha un valore tutto particolare. L’uovo è infatti il primo cibo che si offre a coloro che sono in lutto per la perdita di un parente stretto, in quanto è il simbolo della vita che si appresta a nascere, in opposizione alla morte. Perciò nel momento in cui il nostro animo è in preda alla disperazione e ci pare di non poter trovare né conforto né consolazione a una perdita irrimediabile, esso ci insegna che la vita che vive in noi è un dono che Dio ci ha concesso, e che in questo dono dobbiamo trovare la forza di continuare la nostra opera. 
 Inoltre l’uovo non ha spigoli, perciò non ha né un punto di inizio né un punto di fine. Così la sua rotondità, proprio nel momento in cui pare che con la morte sia tutto finito, ci ricorda che la vita è un ciclo che, come l’uovo, non ha né inizio né fine: chi dai propri cari ha ricevuto la vita e gli insegnamenti, chi lascia dietro di 
sé il dolore dei figli ai quali ha trasmesso la vita e gli insegnamenti, continua a vivere attraverso di loro. 
 Ed è questo il modo umano di conquistare l’eternità. 
 Il segno del lutto che noi aggiungiamo al festoso cesto del Seder, e che per tradizione viene consumato da tutti i primogeniti maschi (ma se anche altri ospiti vorranno associarsi, potranno farlo) è un triste ricordo degli innocenti figli primogeniti degli egiziani, vittime della cieca ostinazione del Faraone. Proprio per questa ragione è il primogenito ebreo che, per dimostrare il proprio dolore per la morte dei fratelli egiziani, usa mangiare l’uovo sodo. 
 Per la medesima ragione i maschi primogeniti, il giorno precedente Pesach, fanno digiuno. 
 Dicevamo che il Seder è molto importante anche dal punto di vista pedagogico: dopo il Kiddush il primo intervento è riservato al commensale più giovane o, in coro, ai più giovani; si tratta del Mah nishtannah: 
“come è diversa questa serata da tutte le altre sere!”.
 Il canto è composto da quattro domande che il bambino rivolge agli adulti: 
“Perché tutte le altre sere mangiamo pane, e questa sera azzima? Perché tutte 
le altre sere mangiamo qualsiasi tipo di verdure, e questa sera erba amara? Perché tutte le altre sere non intingiamo (riferito al sedano intinto in acqua e sale o aceto) neppure una volta, e questa sera due volte? 
Perché tutte le altre sere mangiamo seduti, e questa sera sdraiati?”. 
 Le domande danno il via alle risposte, impartito attraverso la lettura della Haggadah che narra gli eventi miracolosi legati all’uscita dall’Egitto. 
 Durante il Seder si bevono quattro bicchieri di vino in memoria delle quattro espressioni usate da Dio quando preannuncia a Mosè la prossima liberazione del popolo: “li sottrarrò” dalle sofferenze dell’Egitto ; 
“li farò uscire” dal luogo di schiavitù; “li redimerò e li prenderò come mio popolo”. Esse rappresentano i vari stadi della libertà appena riconquistata che vanno elevandosi a sempre maggior livello fino a raggiungere la santità di “li prenderò come mio popolo” (Es 6,7). 
 La Torah aggiunge una quinta espressione: e “li farò entrare nella terra promisi ai loro padri” (Es 6,8). Non può esistere in effetti una completa libertà morale se non è legata a una libertà di comportamento, possibile solo in uno stadio proprio e indipendente. 
 Durante la lettura della Haggadah vengono nominate le dieci piaghe che hanno colpito l’Egitto e per ognuna di essa si versa un po’ di vino contenuto nel bicchiere in un recipiente: ciò sia per augurarci che queste disgrazie siano sempre lontane da noi e dalle nostre famiglie; sia per ricordare che nessuna gioia può essere completa se è costata lutti e dolori ad altri; sia, infine, per auspicare che mai più si ripeta una situazione in cui un popolo meriti di essere colpiti da tanti flagelli. 
 Un momento particolarmente interessante, e psicologicamente e pedagogicamente assai valido, è quello dedicato alla lettura del brano riguardante i “quattro figli”: il sapiente, il semplice, colui che non è capace 
neppure di domandare, e il figliolo cattivo. 
 I quattro figli rappresentano i vari tipi di cui l’umanità è composta e il testo della Haggadah ci fornisce importanti suggerimenti sul tipo di risposta da dare ad ognuno di essi. 
 Al saggio, cioè colui che pone una domanda acuta e complessa, si deve dare una risposta adeguata, dotta e approfondita, che non deluda né sottovaluti l’intelligenza e la capacità di apprendimento di chi domanda. 
 Al semplice occorre dare una risposta chiara e comprensibile per permettergli di capire pienamente il senso di quanto gli si sta spiegando, stimolandolo possibilmente a far nuove domande. 
 Particolarmente importante è l’insegnamento che viene impartito al figlio che non è in grado di porre domande; ci dice infatti la Haggadah: “A colui che non sa domandare, aprigli tu la bocca!”. Importante notare che nella frase “apri tu”, il “tu” è espresso al femminile, “apri” al maschile. È la madre la prima insegnante del bambino, tocca quindi soprattutto a lei, fin dall’inizio, seguire con la massima attenzione il suo sviluppo mentale: ma è il padre che deve coadiuvare e sostenere sua moglie in questa opera. Se ne conclude che solo la collaborazione fra padre e madre permette un normale, sereno sviluppo del carattere infantile. 
 Inoltre, se un bimbo si mostra totalmente disinteressato al mondo che lo circonda, non fa domande e non si pone interrogativi, se dà segno di isolarsi e di non partecipare in alcun modo alla vita attorno a lui, lungi dal rallegrarsi per il “buon carattere” del bambino che non disturba, “aprigli la bocca”, sollecita cioè la sua curiosità, coinvolgilo nei fatti che accadono per renderlo vivo, interessato e partecipe, aiutandolo quindi a crescere e a entrare in modo intelligente e attivo nella società.  Intrigante e piuttosto ironica è la risposta destinata a quel figlio che nella Haggadah viene nominato per secondo: il figlio “malvagio”, che forse rientra più nella categoria dei figli contestatari che in quella di veri e propri “cattivi”. 
 Egli chiede: “Che cosa significa questa cerimonia (il Seder) per voi?”; domanda in cui sottolinea: “Per voi, e non per me!”. 
 Si pone in questa maniera, con una certa arrogante superiorità, totalmente al di fuori del gruppo. 
 Suggerisce la Haggadah: “Tu rispondigli risentito (letteralmente “fagli digrignare i denti”); “Se tu fossi stato presente al momento della salvezza, non saresti stato salvato!”. 
 Una riposta apparentemente impietosa. 
 Ma riflettiamo sui motivi che spingono tante volte i giovani, e non sempre a torto, a contestare certi atteggiamenti, certi usi ereditati e forse non sufficientemente o logicamente spiegati. Nostro compito è quello di chiarire per dar loro modo di comprendere. Ebbene, con la frase incisiva “tu non saresti stato salvato” la Haggadah chiama il giovane a una responsabilità personale facendogli rivivere in prima persona, oggi, il momento drammatico della schiavitù. Ecco, gli dice la Haggadah, se tu, che adesso siedi con noi libero, e puoi parlare liberamente dell’epoca della schiavitù, tu che oggi contesti e rifiuti le responsabilità insite del passato, ti fossi trovato insieme ai nostri primogeniti a scegliere fra schiavitù e libertà, con tutte le responsabilità che tale scelta comportava, forse avresti vigliaccamente scelto di continuare a servire il Faraone. In tal modo non avresti meritato la salvezza e oggi saresti ancora schiavo. 
 La Haggadah non accenna però all’esistenza di un quinto figlio; quello che non c’è perché si è staccato da ogni forma di tradizione e si è perso. 
 A qualsiasi tipo di domanda, anche a quella del contestatore, può essere data una risposta, risposta che può essere discussa, che può arricchire chi lo fa e chi la riceve con nuove interpretazioni non necessariamente in antitesi o in contrasto con quelle precedenti, ma persino innovative e progressiste. 
 Ma il figlio che non è presente è perso. 
 Il Seder finisce con una lunga serie di canti corali tradizionali composti da molte strofe, la cui caratteristica precipua è quella della ripetizione, alla fine di ogni strofa, di una frase: quella che tutti i commensali per tradizione conoscono meglio e quindi cantano a gran voce con grande entusiasmo. 
 In ultimo viene intonato il canto l’anno prossimo tutti a Gerusalemme, ricostruita, e viene distribuito l’afikomen, preparato nella parte iniziale del Seder, che simboleggia il sacrificio pasquale e che deve essere consumato quando si è già sazi.

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