di
T. Herzl ed. Biblioteca Aretina
Theodor
Herzl, , è universalmente noto per il libro Lo
Stato degli ebrei,
pubblicato nel 1896. Ma il messaggio fondamentale di quell'opera —
l'idea di uno Stato dove l'ebraismo della diaspora potesse di nuovo
riunirsi — animò anche un suo romanzo quasi sconosciuto del
1902,Vecchia
terra nuova,
ora pubblicato in italiano per la cura di Roberta Ascarelli.
Inizialmente Herzl aveva pensato di affidare il proprio messaggio
politico non a Lo
Stato degli ebrei,
ma a un'opera «straordinaria», il romanzo in questione. Si tratta
effettivamente di un'opera «stupefacente», come la definisce la
curatrice, anche se la qualità del romanzo rimane spesso schiacciata
dalle pagine esplicitamente didascaliche e dalla trama narrativa un
po' ingenua. Il libro immagina un meraviglioso avvenire visto con gli
occhi di un ebreo austriaco che, abbandonata Vienna per una delusione
amorosa ma anche per una più generale disperazione esistenziale,
vive per vent'anni da eremita in un'isola e si trova poi a passare
nel 1923 dalla Palestina. A quel punto si avvia il tema narrativo
principale dell'opera: la descrizione delle meraviglie che gli ebrei
hanno saputo portare in quella «vecchia e nuova» terra. Dalle
coltivazioni ai mezzi di trasporto, dalla parità di diritti
uomo-donna alla completa eguaglianza tra tutte le religioni e le
culture, dalla pacifica convivenza con gli arabi alla ricostruzione
del Tempio di Gerusalemme, scorrono sotto i nostri occhi i temi di
un'utopia sionista dai tratti ingenui ma suggestivi.
l
libro fu accolto piuttosto freddamente dalla cultura ebraica
viennese: Karl Kraus vi ironizzò su, Arthur Schnitzler confessò
all'autore di non averlo letto. Alla classe media ebraica dell'epoca
appariva surreale — scriverà Stefan Zweig — che Herzl chiedesse
agli ebrei di lasciare «le loro case e le loro ville della
Ringstrasse, i loro affari, i loro incarichi; in una parola, che
emigrassero, armi e bagagli, in Palestina per fondarvi una nazione».
In effetti, gli unici personaggi negativi del romanzo sono gli
appartenenti alla ricca e fatua borghesia ebraica viennese, che
vediamo riferirsi al sionismo e all'idea del ritorno degli ebrei in
Palestina al massimo come argomento per facili battute durante una
cena («al suono della parola Palestina, echeggiò una scrosciante
risata»).
L'ottimismo che Vecchia terra nuova condivide con ogni opera utopistica ha un sottofondo drammatico e tragico. Non solo perché il protagonista è presentato subito come un giovane «colto e disperato», che vive in un milieu ebraico «che dava valore solo al divertimento e al tornaconto». Dietro l'utopia sionista di Herzl c'è l'esperienza dell'antisemitismo europeo, direttamente conosciuto quando era stato a Parigi negli anni dell'affare Dreyfus. Nel romanzo uno dei protagonisti della Nuova Società, costruita in Palestina su base mutualistica e multietnica, osserva che tutto era stato reso possibile dai grandi progressi della tecnica, certo. Ma di quei progressi si erano potuti giovare soltanto gli ebrei per una forza speciale da loro posseduta: «Da dove ci veniva? Dalla generale, angosciante pressione che era esercitata su di noi, dalla persecuzione, dal bisogno». Persecuzione e condizione di bisogno che nell'immaginario 1923 descritto da Herzl sono assenti: nell'ottimistica situazione da lui presentata nel romanzo l'antisemitismo risulta ormai scomparso, sia in Palestina sia nel resto del mondo. Una conclusione, o meglio un auspicio, che la storia successiva si sarebbe incaricata di smentire completamente.
(recensione di Giovanni Belardelli su Informazione Corretta
17.12.2012)
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